
di
Serena Romano, «Scienza Duemila», Oikos, aprile 1983
Ottomila chilometri di costa italiana esposta ai rischi dell’inquinamento
marino: oltre 2.000 miliardi impegnati nel
tentativo di disinquinare solo i 250 chilometri della costa campana.
Si tratta della spesa finora impegnata per il Progetto
Speciale n. 3 (PS3), un complesso ciclopico di impianti di depurazione
con i quali la Cassa per il Mezzogiorno intende provvedere
al “disinquinamento del Golfo di Napoli”.
È questo un esempio emblematico del gap che si crea tra
concezione bioecologica e “faraonico-ingegneristica” della lotta
all’inquinamento: cioè tra chi, come l’ecologo, il biologo, il
chimico, l’oceanografo, conoscendo la natura ed i suoi prodigiosi
meccanismi di difesa, è portato a proporre soluzioni naturali;
e chi, come alcuni “tecnici”, indipendentemente dalle
possibilità offerte dall’ambiente, preferisce elaborare meccanismi
artificiali per depurare, disinquinare, sterilizzare. Contrasto
che, nel caso di Napoli, ha preso toni particolarmente
accesi tra coloro che, nel rispetto degli equilibri ambientali,
hanno suggerito la soluzione delle condotte sottomarine
ed i sostenitori in modo aprioristico delle “cattedrali del liquame”.
L’aprioristico non è detto a caso. Infatti il PS3 è un esempio
emblematico anche per gli effetti disastrosi provocati
dalla mancanza di un’impostazione scientifica ed interdisciplinare
dei problemi ecologici: dopo dieci anni il problema di
Napoli è ancora irrisolto mentre centinaia di casi felicissimi,
come quello del disinquinamento del Tamigi, sono la dimostrazione
della validità di un corretto rapporto interdisciplinare
tra tecnici ed ecologi. Risultato: nel Tamigi oggi si
pesca nuovamente; nel Golfo di Napoli forse non si pescherà
mai più e non per effetto dell’inquinamento, ma dell’eccessiva
depurazione che sottrarrà al mare tutte quelle
sostanze nutritive contenute nei liquami, le quali ne costituiscono
il naturale nutrimento.
Le premesse
Sono il punto debole di tutta la questione. Lo dimostra la
“Monografia” per la Commissione Consiliare permanente per
i progetti speciali firmati dai consiglieri della Cassa per il
Mezzogiorno, professori Saraceno e Petriccione, e basata sulla
relazione preliminare dell’ing. De Falco. In questo elaborato
viene delineato il percorso di studi da seguire per arrivare
ad un corretto approccio del problema: ma in realtà l’impostazione
metodologica della delicata fase progettuale, illustrata
con rigore esemplare nella prima parte della monografia,
viene totalmente negata nella seconda parte della stessa.
Nel capitolo intitolato “Criteri generali di progettazione”
si inizia infatti con il sottolineare la necessità di acquisire
«tutti gli strumenti statistici e tecnici occorrenti all’inquadramento
del problema nella sua realtà fisico-ambientale
» approntando una serie di ricerche sulle fonti di inquinamento,
sulle caratteristiche del materiale inquinante
attraverso analisi chimico-fisiche e batteriologiche, sull’entità
degli scarichi, sugli impianti di depurazione esistenti,
sui fenomeni diffusivi in mare, ecc. Queste ed altre indagini
«dovrebbero permettere di costruire il “modello attuale”
della situazione nei riguardi dell’inquinamento», la cui lettura
«potrebbe già di per sé evidenziare alcuni interventi da
realizzare per eliminare il fenomeno in esame». In proposito,
però, i relatori sottolineano opportunamente che «trattandosi
di una complessa serie di scelte, queste vanno effettuate
considerando simultaneamente le diverse variabili che
influenzano il tipo e l’ammontare degli interventi da realizzare
», perché «è evidente che una qualunque decisione
presa nei riguardi di una delle grandezze che riguardano il
tema in oggetto non può non influenzare tutte le altre. La
progettazione deve essere perciò in grado di definire simultaneamente
l’insieme migliore degli interventi da realizzare
». Si passa, quindi, con immutato rigore, al capitolo dedicato
alla “Gestione del progetto”, che fa riferimento in particolare
a due strumenti: un grafico reticolare («che dovrà
indicare tutte le fasi progettuali») ed un modello di simulazione
come «strumento di sintesi delle ricerche settoriali che
verranno svolte […] atto a fornire indicazioni sulla fattibilità
economica delle alternative che verranno proposte».
Quanto al compito dei «responsabili delle ricerche di settore,
sarà quello di far sì che, sulla base delle indicazioni formulate
dal coordinatore, ogni azione di intervento individuato,
per ogni alternativa possibile, sia sottoposta ad una verifica
economica che permetta un giudizio di convenienza. Tale
giudizio dovrà riguardare anche il dimensionamento delle
opere, le loro caratteristiche tecniche, la loro localizzazione
sul territorio». E si arriva, in questo modo esemplare, alla
formulazione del “piano di lavoro”, che, secondo i relatori,
dovrebbe avvenire in due fasi distinte: la prima (della durata
di sei mesi) dovrà «prevedere di individuare le indagini da
svolgere con i tempi di esecuzione e le metodologie da utilizzare
»; nella seconda fase (che prenderà i successivi 18 mesi)
saranno «effettuate le indagini programmate nella prima» e,
quindi, sarà adottata «la soluzione progettuale più idonea a
risolvere il problema. In tale soluzione, dovranno essere specificate
le opere da realizzare» con i relativi costi e tempi per
individuare sia i problemi che saranno risolti sia i costi da
sostenere nei vari anni. «Sarà inoltre necessario prevedere le
forme, i modi e i piani finanziari per la gestione delle opere
una volta realizzate, tenendo conto delle realtà istituzionali
esistenti e delle opportunità del loro adeguamento».
Un’impostazione, dunque, puntuale e inoppugnabile, ma
che, nella seconda parte della monografia, viene in poche righe
annullata e stravolta: «L’esigenza di costruire un piano coerente
in ogni sua parte e che minimizza i costi di intervento a parità
di obiettivi conseguiti contrasta, però, con la situazione di
estrema gravità dell’area che potrebbe essere ulteriormente
compromessa nell’arco dei due anni necessari per l’approntamento
del piano. È pertanto opportuno […] selezionare alcune
opere di primo intervento la cui realizzazione potrà essere
avviata nella fase di elaborazione del piano».
Nasce così, sotto il nome di «primo organico approccio
operativo per conseguire in tempi non lunghi risultati tangibili
e a largo raggio», un vasto programma di interventi che
(come risulta dall’elenco dettagliato incluso nella monografia),
in realtà, sono già il progetto di disinquinamento.
Infatti contro la stessa logica che anima la prima parte del
documento e nella quale si propone di dar vita ai comitati
Tecnico e di Coordinamento che, dopo adeguati studi ed
indagini, dovrebbero adottare le scelte più opportune, nella
seconda parte del medesimo documento si chiede di approvare
una serie di soluzioni che, di fatto, anticipano e vincolano
tutte le scelte future. Ma ciò che lascia ancora più perplessi
è che, mentre questo strano modo di procedere viene
giustificato con la necessità di porre rapido rimedio al grave
inquinamento dell’aria, le cosiddette «opere preliminari»
consistono, invece, in un «complesso organico di impianti di
depurazione», la cui costruzione non è semplice né rapida.
Eppure, una soluzione per eliminare in tempi brevissimi
e con poca spesa gli effetti dell’inquinamento sulle coste
senza pregiudicare le scelte definitive c’era, e fu anche largamente
evidenziata da un esperto del settore, il prof. Alfredo
Paoletti, dopo che dalla Cassa fu nominato (il 21 febbraio
’73) componente del Comitato tecnico-scientifico del PS3,
del quale facevano parte, tra gli altri, gli ingegneri De Falco,
De Palma, Avolio, De Martino, Passino del CNR, oltre a vari
rappresentanti della Cassa: le condotte sottomarine proposte
da Paoletti potevano costituire, infatti, o un’alternativa
agli impianti di depurazione oppure quel «primo intervento
» immediato per far fronte in modo efficace alla «situazione
di estrema gravità dell’area». Impostazione, questa del
Paoletti, che era già stata, e che verrà in seguito, ampiamente
prospettata da altri studiosi e tecnici in diversi convegni
a livello internazionale tenutisi in Italia.
Come dichiara lo stesso prof. Paoletti: «Durante le riunioni
del comitato sostenni questa tesi, e sia a voce che per
iscritto chiesi che se ne tenesse conto, affermando in particolare
che, per quanto concerneva l’impianto di Cuma, il
progetto contrastava con l’inderogabile necessità tecnica e
finanziaria di realizzare una prima fase funzionale comprendente
la condotta ed il trattamento preliminare (o
meccanico, n.d.r.) dei liquami. Dopo la riunione del 18 settembre
del ’73, seconda ed ultima cui partecipai, affermai
che, per convincimento scientifico e tecnico, non mi sentivo
di sottoscrivere altre linee di comportamento che non
tenessero presente la necessità di far prima quanto necessario
per un risultato batteriologico anti-inquinamento delle
acque costiere: tanto più che questo primo passo non incideva
minimamente su tutti gli altri miglioramenti previsti
per il progetto. La mia preoccupazione era che si potesse
essere accusati e chiamati in giudizio per omissione in atti
di ufficio o ritardo se non si mettevano in essere tutti i
mezzi tecnici disponibili per salvare le spiagge e l’incolumità
dei cittadini con la tempestività necessaria tecnicamente
possibile». Così, in una lettera del 26 novembre 1973
(prot. SP/2882), il direttore generale della CASMEZ, Francesco
Coscia, rispondeva a Paoletti: «Ho seguito e seguo il
suo punto di vista sugli apprestamenti essenziali per il disinquinamento
dei bacini marini. Non è mio compito entrare
nel merito degli apprezzamenti di carattere tecnico-scientifico
sulle soluzioni che, alternativamente o integrativamente,
si affacciano. Desidero solo assicurarLa della più
grande attenzione che metteremo alle Sue segnalazioni e
delle preoccupazioni, soprattutto di carattere gestionale,
che abbiamo sempre presenti».
Risultato: benché ufficialmente riconfermato nell’incarico
per altri sei mesi, Paoletti non fu mai più invitato alle
riunioni del Comitato.
Così, nel 1973, si avvia il Progetto Speciale. Ma questa
partenza anomala, priva di una premessa scientificamente
valida, non poteva non ripercuotersi sullo sviluppo del Progetto
stesso. Non solo, da questa data in avanti, l’argomento
“condotte sottomarine” – tema di convegni in Italia e
all’estero – a Napoli diventa un argomento scabroso, trattato
a colpi di denunce (anche anonime) e di comunicazioni
giudiziarie.
Lo sviluppo
Inevitabilmente, dunque, è stato contorto. Passo dopo
passo dimostra la sua debolezza dovuta a mancanza di studi
preparatori, con la conseguenza che i problemi, anziché
risolversi, si aggrovigliano sempre più. Di questi, almeno tre
diventeranno nodi irresolubili (o, comunque, finora irrisolti):
il vertiginoso e continuo aumento della spesa iniziale; il
gravoso ed insostenibile peso dei costi gestionali; il problema
dello smaltimento dei fanghi residui che, come spada di
Damocle, è tuttora sospeso sull’intero progetto e rischia di
vanificarne ogni risultato.
In particolare, è durante l’incontro pubblico, promosso
ai primi del ’77 dal gruppo regionale comunista della
Campania, che ritardi, procedure anomale, mancate programmazioni,
errate previsioni e indebite pressioni politiche
vengono a galla. La prima accusa è il rapporto, o
meglio, il mancato o anomalo rapporto con gli enti locali:
«Possiamo senz’altro affermare che vi è stata una trattativa
privata e segreta svoltasi ai vertici della Giunta regionale
e della Cassa», dichiarò Francesco Daniele, presidente del
gruppo consiliare del PCI e Benito Visca, consigliere regionale
e membro del Comitato dei rappresentanti delle regioni
per gli interventi straordinari del Mezzogiorno, aggiunse
che: «Con la delibera del settembre ’76 – con cui la Giunta
regionale ha espresso parere favorevole al progetto – la
Giunta stessa ha compiuto un atto gravissimo non essendo
in possesso di alcun elemento tecnico per poter esprimere un
parere».
«In realtà – notò Diego Del Rio, consigliere regionale del
PCI – per cinque anni, intorno al PS3 è stata fatta soltanto
propaganda e solo pochissimi addetti ai lavori hanno avuto
la possibilità di conoscere realmente come andavano sviluppandosi
le cose». Comincia così ad emergere l’iceberg della
spesa (1.385 miliardi), di cui all’inizio spuntava solo la cima
(27 miliardi). Ma qual è l’origine della continua lievitazione
della spesa? Lo spiegò Del Rio: «La Cassa ha affidato
sostanzialmente la progettazione e l’esecuzione dei lavori ad
una serie di raggruppamenti di imprese […] ciò ha messo in
moto una spirale senza fine di dilatazione della spesa. Unico
precedente di simile procedura in Italia si ha subito dopo
l’Unità nella costruzione del sistema ferroviario nazionale: è
noto, infatti, che, essendo le imprese retribuite a chilometro
di binari costruiti, sono state progettate e realizzate, dalle
stesse imprese, linee estremamente tortuose, su percorsi
spesso inutili, all’unico scopo di dilatare i profitti». L’approssimazione
del bando, i prezzi vaghi, i capitolati tecnici
quasi inesistenti, ecc. secondo Del Rio: «Hanno reso discrezionale
l’affidamento degli appalti. Poi ha provveduto e sta
continuando a provvedere l’Ufficio Tecnico della Cassa, con
aggiunte e varianti, a riformulare i prezzi senza la necessità
di riconfrontarli in gara. La procedura di affidamento scelta
dalla Cassa esigeva capitolati tecnici di estrema precisione ed
una definizione rigorosa del progetto di massima, mancando
i quali si è imboccato il tunnel che sbocca in realizzazione di
impianti ad onere globale indeterminato».
Emerge, così, anche il problema dei costi di gestione,
altissimi perché si aggirano dal 5% al 10% annuo del costo
dell’impianto: cioè, decine di miliardi all’anno. «Come Presidente
della Commissione Bilancio, affermo che il bilancio
della Campania non è in grado di sopportare tale spesa – dichiarò
Visca alla fine del dibattito. In Campania vi sono già,
peraltro, 270 depuratori completamente abbandonati per
l’impossibilità degli enti locali di gestire tali opere. Si rischia,
quindi, di costruire impianti che non potranno funzionare
anche per la mancanza di fondi da destinare alla gestione
oltre che per carenza di personale tecnico specializzato».
Analoghe critiche, sempre nel ’77, furono oggetto anche
di un’interrogazione parlamentare degli onorevoli Longo e
Ciampaglia, ma la risposta del Ministro, vaga e poco convincente,
non dissipò i dubbi e le perplessità. Ciò nonostante,
il dibattito aperto da questi sconcertanti interrogativi si
smorza rapidamente, mentre l’attenzione viene dirottata
altrove: una comunicazione giudiziaria colpisce il sindaco
Valenzi e l’assessore alla Sanità del Comune di Napoli, Calì.
Questi, proprio per rimediare ai ritardi della Cassa e per eliminare
rapidamente, i danni dell’inquinamento alla salute
pubblica, al turismo e alla balneazione, avevano adottato
autonomamente la soluzione delle condotte sottomarine nel
tratto da Mergellina a Posillipo. Ma, nonostante la violenta
campagna denigratoria («Valenzi zero in condotte», il goliardico
titolo dei manifesti murali), il procedimento non ebbe
corso per «l’impromovibilità dell’azione penale». Risultato:
benché i benefici, in quel tratto di costa, si notarono (a
Marechiaro, dove è in funzione la condotta, i coli passarono
da 2.280 a 1), l’episodio riconfermò l’ostilità verso le condotte
che, a Napoli, si era già manifestata nel ’73, di fronte ai
suggerimenti di Paoletti, e nel ’76 verso quelli di Oppenheimer.
Anche lo scienziato americano, infatti, dopo l’indagine
sul Golfo di Napoli commissionatagli dalla Regione
Campania, era giunto alle stesse conclusioni di Paoletti,
accolte con la stessa indifferenza e malcelata avversione.
Ma se nell’opinione pubblica l’eco delle critiche al Progetto
Speciale si affievolisce, nel parere del Comitato dei rappresentanti
delle regioni meridionali, espresso nella seduta
del 5 giugno ’79, si sollevano, invece, forti riserve: innanzitutto
perché il parere della Regione viene richiesto «quando
significative scelte sono già state trasferite in decisioni operative
»; poi, per la mancanza nell’elaborazione progettuale e
tecnica di «elementi di valutazione dell’eventuale maggior
onere di impianto e di gestione per lo smaltimento dei rifiuti
solidi e liquidi di origine industriale, e di recupero degli
oneri stessi dovendo, per legge, i privati farsi carico di tale
problema»; inoltre, perché «non è stato definito l’onere relativo
all’installazione di impianti di incenerimento dei rifiuti
solidi di origine urbana […] né il bilancio energetico […] né
è stata dimostrata la convenienza economica – costi di
impianto, di gestione, di ammortamento – di tale sistema di
smaltimento». Vengono al pettine, così, anche e soprattutto
i nodi derivanti dalla mancanza di impostazione scientifica
del problema, tanto che il Comitato delle regioni chiede che
il CNR effettui una ricerca «finalizzata all’accertamento del
grado di tossicità dei fumi derivanti dall’incenerimento sotto
tutti gli aspetti» e in particolare per la diossina. Raccomanda,
inoltre, di usare «la massima cautela nelle scelte operative
fino a quando non sia sciolto il quesito relativo alla possibilità
di trarre l’energia dall’incenerimento dei rifiuti solidi e
dei fanghi».
A questo punto ci si chiederà come mai, nel documento
del Comitato delle regioni, si fa riferimento ai rifiuti solidi,
cioè all’eliminazione delle spazzature, mentre finora si è parlato
di depurazione dei liquami, vale a dire delle acque di
fogna. Sono stati i responsabili della Cassa a mutare il contenuto
tecnico originario dei vari progetti del PS3: una decisione
che, per essere valutata nelle sue gravi implicazioni,
presuppone un chiarimento. Chi non è esperto di tecniche
disinquinanti potrebbe immaginare che l’impianto di depurazione
sia una sorta di bacchetta magica che fa sparire nei
suoi complicati meccanismi le sostanze “dannose”. Il che
non è. L’impianto di depurazione, infatti, non fa che separare
i contaminanti dalla massa liquida: il risultato è che,
all’uscita dell’impianto, da un lato si avrà acqua depurata e
dall’altro una fanghiglia in cui sono presenti sostanze dannose
o contaminanti. La depurazione dei liquami, quindi,
non elimina i problemi dell’inquinamento, ma li sposta soltanto
(sia esso di tipo “primario” o di sedimentazione, “secondario”
o biologico, “terziario” o chimico): dopo il processo
depurativo dei liquami rimane, comunque, da risolvere il
problema dello smaltimento di questi fanghi altamente
inquinanti che, dovunque vengano scaricati, possono provocare
danni se non si adottano adeguati accorgimenti che, a
loro volta, richiedono ulteriori spese.
Ebbene, inizialmente nei bandi di appalto-concorso (datati
16 giugno ’74 e 14 ottobre ’75) per i 13 depuratori del
PS3 era incluso, nel processo di depurazione dei liquami,
anche lo smaltimento di questi fanghi con un procedimento
che avrebbe consentito il recupero di energia e l’incenerimento
dei fanghi. Dai successivi bandi di appalto-concorso,
però, è stata stralciata la fase dello «smaltimento fanghi» e
posto in programma di abbinarne la distruzione all’incenerimento
dei rifiuti solidi urbani: ovvero, come risulta dal
bollettino della CASMEZ datato 1 agosto ’77, si è deciso di far
bruciare insieme fanghi ed immondizia, trasferendo il trattamento
dei fanghi in altri impianti, e cioè in quelli del trattamento
dei rifiuti solidi urbani che, però, dovevano essere
ancora progettati.
Rileggendo, allora, le già citate riserve espresse dal
Comitato delle regioni nel parere del ’79, la responsabilità di
questo mutamento di programma è evidente e sottolinea la
gravissima superficialità dell’impostazione: innanzitutto perché
la decisione è successiva all’episodio di Seveso, cioè quando,
avrebbe dovuto già esservi consapevolezza, a livello scientifico,
del rischio di produzione di diossina negli inceneritori
dei rifiuti solidi urbani; quindi, per non aver promosso preventive,
immediate e rigorose sperimentazioni da sottoporre alle
istituzioni sanitarie solo per verifica e non come tema di ricerca;
poi, per non aver trovato, su solide basi scientifiche, delle
valide alternative per aggirare il problema diossina; infine per
aver bloccato così tutto il PS3, in fiduciosa attesa che qualcun
altro, magari dall’estero, risolva la parte più problematica;
ma specialmente per aver adottato una soluzione come questa
dell’accoppiamento “fango + immondizia” all’incenerimento,
di cui non esiste diffusione nota e sperimentata al
punto da dare sufficienti garanzie di successo.
Ecco perché uno dei problemi più gravi (anche se il meno
evidenziato sia sulla stampa che in pubblici dibattiti – data
la difficoltà di trattazione in una sede non specialistica) è
ancora oggi, e chissà per quanto, questo dello smaltimento
dei fanghi residui. Problema che poteva essere evitato se
fosse stato valutato preventivamente in tutti i suoi risvolti.
Scrivevano, già nel ’55, Imhoff e Koch che un impianto di
depurazione che non contempli, all’atto della progettazione,
lo smaltimento dei fanghi residui, non ha senso. Problema
che certamente poteva essere evitato optando per le condotte
sottomarine come aveva suggerito Paoletti. Infatti questa
soluzione è tuttora la preferita nelle zone costiere perché, tra
gli innumerevoli vantaggi, lo scarico al largo, preceduto dal
solo trattamento meccanico di grigliatura (asportazione di
carta, stracci, plastica, ecc. trattenuti, appunto, da una griglia)
non produce fanghi da trattare.
Al punto in cui si è arrivati, dunque, e per il modo come
vi si è giunti, questo problema è diventato un nodo inestricabile
perché il suo scioglimento non dipende più soltanto
da alchimie burocratiche. E ciò che lascia più perplessi è la
valutazione di coloro che, ancora oggi, tendono a sottovalutarne
la reale portata, come è apparso con evidenza nel
corso di una recente conferenza organizzata da Italia Nostra
e tenuta a Napoli da Oppenheimer sui problemi ecologici del
Golfo. Di fronte alle perplessità manifestate dallo studioso
americano sui criteri adottati nel PS3 per il risanamento
ambientale e soprattutto per la mancata soluzione del problema
dei fanghi, le reazioni di consulenti e tecnici della
Cassa hanno dimostrato ancora una volta una sostanziale
chiusura ad ogni confronto e rivelato quanto essi siano lontani
dal necessario approfondimento scientifico che la questione
richiede. Emblematica la risposta, durante il dibattito,
del prof. Luigi Mendia, docente di Ingegneria Sanitaria
all’Università di Napoli e consulente della Cassa per il PS3:
«Siamo una regione, una città in cui queste questioni da
anni vengono affrontate in maniera particolarmente puntuale
e scientifica. Ora recriminare sul fatto che il Golfo di
Napoli sia stato oggetto di un progetto globale particolarmente
avanzato, che ci pone all’avanguardia rispetto ad altri
paesi mediterranei, mi sembra veramente molto spiacevole e
direi assolutamente inutile». Che, nel dominio della scienza,
un confronto di idee possa venir scambiato per «recriminazione
» o addirittura essere considerato inutile è un atteggiamento
che non merita commenti.
Sta di fatto che il problema dello smaltimento dei fanghi,
purtroppo, esiste: e non può essere liquidato né con una secca
risposta né con le argomentazioni tecniche che ha voluto fornire
il direttore tecnico centrale della CASMEZ, ing. Giuseppe
Consiglio. Ecco le sue tesi, raccolte nel corso di un’intervista
seguita alla “provocazione” di Oppenheimer, sul problema
dei fanghi e sulle ragioni che, a suo dire, hanno fatto scartare
per Napoli l’alternativa delle condotte. Egli ha tenuto,
anzitutto, a sottolineare che «prima che le acque luride vengano
immesse nelle condotte sottomarine si richiedono, comunque,
due operazioni: il trattamento primario e la centrale
di sollevamento. L’impianto primario è quello in cui avviene
la sedimentazione primaria dei fanghi. Ebbene, di tutti i
fanghi che si producono, in un impianto completo (che prevede,
cioè, anche il trattamento secondario e terziario, n.d.r.)
l’80% dei fanghi proviene dalla sedimentazione primaria.
Quindi il problema dei fanghi, per l’80% si presenta identico,
che si adottino o meno le condotte sottomarine. Quanto alla
centrale di sollevamento, questa serve a dare spinta ai liquami
una volta arrivati a livello del mare, per immetterli con la
dovuta pressione nella condotta. Anche per la condotta sottomarina,
dunque, come per qualsiasi impianto di depurazione,
è necessaria una grossa centrale di sollevamento».
In altre parole l’ing. Consiglio sostiene che gran parte
delle difficoltà (sia impiantistiche che per lo smaltimento dei
fanghi), richieste da un impianto di depurazione, esistono
anche se si adotta il sistema delle condotte sottomarine. I
termini della questione sono, invece, assai diversi: ai fini del
corretto funzionamento di una condotta, mentre è indispensabile
un trattamento meccanico o preliminare (cioè, di grigliatura
e dissabbiatura, per evitare l’usura della condotta
stessa e l’otturazione dei fori del diffusore), non è altrettanto
indispensabile il trattamento di sedimentazione primaria.
Questa tesi sostenuta da più di un esperto, in più di un convegno,
è stata messa in pratica con buoni esiti in California
come a Torvaianica, all’Isola d’Elba come ad Anzio, a Nettuno,
ecc. Quanto alla “grossa” centrale di sollevamento per
le condotte, prospettata dal Consiglio, il problema del pompaggio
dei liquami fino al depuratore – normalmente ubicato
lontano dal centro cittadino – comporta un consumo
energetico e relativo costo di impianto di gran lunga superiore
a quello necessario quando si adotti il sistema della condotta
sottomarina, la quale, in genere, ha un percorso rettilineo
e uno sviluppo limitato solo a qualche chilometro.
«Sinceramente, noi realizzeremmo volentieri le condotte
se la legge ce lo permettesse», considera ancora Consiglio. E,
riferendosi agli studi sul Golfo di Napoli eseguiti dal prof.
Oppenheimer nel ’76, nota che: «Quando Oppenheimer suggeriva
di scaricare in mare i liquami, tramite condotte, si
riferiva ai liquami urbani, e sottolineava che il problema
assume carattere differente quando si tratta di fognature
che, oltre al liquame urbano, raccolgono anche le acque
industriali e le acque di pioggia che ruscellano sulle strade di
zone densamente abitate e quindi, ricche di metalli pesanti.
Ebbene, questo tipo di fognature, cosiddette “miste”, sono
appunto quelle della rete napoletana». Secondo Consiglio,
dunque, non è consigliabile l’uso delle condotte.
Anche queste affermazioni lasciano però perplessi.
Innanzitutto, per quanto riguarda la legge Merli, esse sembrano
non tener conto delle modifiche introdotte dall’art. 17 della
legge 650 del ’79 che consente alle Regioni ampia elasticità nel
fissare, per le caratteristiche delle acque trattate, i limiti di
accettabilità, anche dei piani di risanamento adottati. Del
resto, anche se non fosse intervenuta la modifica, prevarrebbe
comunque il ragionamento per cui, se è vero che la legge vieta
di scaricare al largo, tramite condotta, liquami non “depurati”,
a maggior ragione vieta di scaricarli sotto costa. A Napoli,
dunque, si è già “fuori legge” perché, in attesa della costruzione
dei depuratori, e non avendo voluto installare, neppure
come primo intervento, le condotte sottomarine, i liquami si
scaricano vicino alla costa con danno per chi ci vive. «A parità
di reato, dunque, tanto vale salvare almeno la salute del cittadino
». Questo concetto è stato ribadito da esperti come
Ferranti o Paoletti. Nel libro Oceanografia medica, Paoletti
pone in proposito sostanzialmente quattro domande (e fornisce
altrettante risposte): che cosa vogliamo salvaguardare?
Innanzitutto, le acque costiere, perché a contatto di queste
vive l’uomo. Da che cosa vogliamo salvaguardare le coste?
Dall’inquinamento, ma soprattutto dai contaminanti più
pericolosi. In che misura dobbiamo salvaguardarle? Fino al
punto in cui non ne derivino più danni alla salute dell’uomo,
né alle attività di pesca, sport, turismo, balneazione, insomma
restituendo alle acque costiere quelle proprietà che le rendono
idonee all’uso cui sono destinate per vocazione. Con quali
si vogliono raggiungere questi obiettivi? Con il più celere,
il più economico, quello che dà maggiori garanzie e che, in
futuro, non precluda anche altre migliori e differenti soluzioni.
Quindi, con le condotte sottomarine. Questi, del resto, sono i
criteri ed i procedimenti seguiti da molte città italiane anche
dopo l’approvazione della legge Merli.
Perché a Napoli non si è fatto altrettanto? Quanto al
problema delle acque piovane, effettivamente la rete napoletana
è un sistema “misto” e quindi, negli scarichi, si possono
trovare tracce di metalli pesanti trascinati dalla pioggia.
C’è, comunque, da chiedersi se i metalli siano tossici dal
momento che fanno parte della crosta terrestre e, quindi,
anche senza l’intervento dell’uomo, si accumulano nel mare
per erosione spontanea. Come dimostra la bibliografia mondiale,
per almeno tredici di questi metalli c’è certezza che
sono indispensabili per la vita delle piante, degli animali e
degli uomini. Diventano o possono diventare pericolosi solo
in base alla quantità o concentrazione. A maggior ragione,
allora, la diluizione in mare potrebbe essere un motivo in più
per usare le condotte sottomarine senza trattamento, dato
che negli impianti di depurazione si avrebbe un concentrato
di questi metalli nei fanghi residui, con maggiori rischi per il
luogo in cui verranno scaricati. Per avere un’idea dell’estrema
diluizione, basti pensare che il volume delle acque del
Golfo di Napoli è di oltre 200 miliardi di metri cubi.
Quanto all’obiezione, infine, sulle acque industriali presenti
nei sistemi fognari “misti”, proprio la legge Merli impone
agli stabilimenti industriali di scaricare nelle pubbliche
fognature acque già depurate e, quindi, ricondotte ai limiti
di accettabilità.
Rimane il fatto, comunque, che gli impianti di depurazione
previsti dal PS3 produrranno fanghi residui per il cui
smaltimento, come si è visto, non è ancora stata trovata una
soluzione definitiva. Quando gli impianti entreranno in funzione,
come si prevede di liberarsi dei fanghi? Risponde l’ing.
Consiglio: «Con le discariche controllate. Cioè si sceglie una
certa zona sotterranea, una zona protetta, e vi si deposita il
materiale». Ma vi sono rischi di inquinamento del terreno?
«No, non ce ne sono. È allo studio un censimento per individuare
in tutta l’area napoletana zone da destinare a discarica,
tipo cave abbandonate o altro». A parte la disponibilità,
solamente ipotetica, di aree sufficienti a raccogliere la produzione
giornaliera di fanghi, la cui quantità è enorme (per
i dieci milioni di abitanti sui quali è proporzionato il PS3, ci
sarà una produzione di fango umido nella misura di circa
quattro milioni di chili al giorno), c’è da considerare un altro
aspetto: la inevitabile presenza di residui di materia organica
e di nutrimento in ambiente ricco di umidità costituiscono
un habitat ideale per l’ulteriore sviluppo della flora microbica,
che lo stesso ing. Consiglio ammette superstite nei fanghi
«sottoposti a digestione». Del resto, non a caso, se le
discariche controllate dessero completa affidabilità, verrebbero
adottate queste in tutto il mondo, anziché i ben più
onerosi impianti di incenerimento. Le discariche, dunque,
per quanto controllate possano essere, non offriranno mai
garanzia certa contro le contaminazioni, specialmente se si
considerano le notevoli quantità, ora citate, che conferiscono
al pericolo una dimensione preoccupante.
Le conclusioni
Sono, purtroppo, tragicamente evidenti. Infatti, se si
estendono le responsabilità e gli interrogativi, cui si è accennato
limitatamente al problema dei fanghi, a tutto l’arco dei
gravi problemi tuttora irrisolti del PS3; se, tenendo conto
che sono già trascorsi dieci anni dalla partenza del progetto,
si tenta una previsione credibile di quelli ancora necessari
per il completamento; se su questa variabile temporale si
calcolano i costi reali del progetto – da una previsione di 27
miliardi nel ’73 ad una di 2.250, per ora – e quelli perenni di
gestione stimabili tra il 5 e il 10% annuo del costo dell’impianto;
se, inoltre, in base a questa variabile temporale si
misura l’incremento del degrado ambientale che già dieci
anni fa «impedì» ai responsabili della Cassa di «costruire un
piano coerente» perché «la situazione di estrema gravità dell’area
potrebbe essere ulteriormente compromessa nell’arco
dei due anni necessari all’approntamento del piano»; se,
infine, si getta uno sguardo alle soluzioni più rapide, felici ed
economiche, realizzate altrove su presupposti simili e condizioni
più compromesse di quelle dell’area napoletana; le conclusioni
non possono essere che raccapriccianti.
E il caso di Napoli è emblematico, perché errori di calcolo,
previsioni sbagliate e problemi irrisolti derivano tutti
dalla gravissima manchevolezza di aver scavalcato la fase
iniziale di studio pubblicamente annunciata e poi sostituita
da un procedere a tentoni, che ha compromesso un investimento
di migliaia di miliardi in una situazione senza uscita,
sulla quale pesa una sola certezza: l’eterno debito dei costi
di gestione che saranno pagati dai cittadini.
Allo stato attuale logica e senso di responsabilità imporrebbero
di fermare tutto, creando la necessaria pausa di
meditazione per organizzare, ora per allora, uno studio
finalmente serio. Questo suggerimento purtroppo non è
nuovo, ma la reazione con cui già in passato è stato accolto
costrinse a precisare: «Bisogna superare l’atteggiamento
ricattatorio di chi sostiene che quanti richiedono la revisione
del progetto non vorrebbero il progetto. La realtà è ben
diversa e deve verificarsi nella volontà comune di ottenere
un progetto funzionale nel tempo più breve».
Oggi c’è da chiedersi: è meglio aver sprecato 1.000
miliardi per un errore o buttarne altri 5.000 per non volerlo
ammettere?
Un problema, due soluzioni
Intervento del prof. Alfredo Paoletti del 1° ottobre 1973
pubblicato in «Scienza Duemila», Oikos, aprile 1983
Il problema. Oltre 4 milioni di abitanti della Campania
versano in mare i loro rifiuti fognari. In cifre ciò significa
circa 8 mc/sec di acque luride che contengono 100.000.000 di
colifecali per 100 c.c. in media, per un totale di
691.200.000.000.000.000 di questi microbi che ogni 24 ore
raggiungono le acque del golfo. I bacilli del tifo e paratifo
possono considerarsi in numero 100.000 volte minore dei
colifecali, ed altrettanto i virus, compreso quello dell’epatite
infettiva. Malgrado ciò, ad una certa distanza dalla costa,
le acque marine tornano normali per opera dei noti poteri di
autodepurazione delle acque ed a causa della limitata resistenza
dei microbi intestinali nell’ambiente esterno. Ma in
conseguenza di ciò i vivai di mitili e molte zone balneari sono
infette. Così si spiega perché noi siamo i primi in graduatoria
per casi denunciati di tifo e paratifo; perché Napoli, da
sola, abbia più casi di tifo di tutti gli Stati Uniti; perché il
colera vi si sia affacciato in modo così violento, ecc.
Le due soluzioni. Penso che quasi tutti gli italiani, compresi
i politici e gli amministratori, fossero fino ad oggi convinti
che tale problema si potesse risolvere solo con gli
impianti di depurazione, perché questo era il dogma divulgato
dai tecnici. È bene si sappia che, almeno nelle zone
costiere, le soluzioni sono due, e tra queste bisogna scegliere
la più celere, la meno costosa, la più efficace: ovvero le
condotte sottomarine. (Premesso che entrambe le soluzioni
richiedono una parte comune, rappresentata dal trattamento
preliminare – asportazione di carta, stracci, plastica, ecc.
– che inficierebbe le opere successive, il paragone tra le due
soluzioni parte da questo punto in poi).
Il sistema è alquanto diffuso nei paesi anglosassoni; nella
sola California le condotte sottomarine sono ben 24 con
lunghezze variabili fino a 11 km; la Costa Azzurra ne ha 8
ed altre 7 in progetto; il Principato di Monaco ha installato
la sua condotta ai piedi della rocca del Museo Oceanografico;
la nostra Riviera dei Fiori ne ha ben 8, di cui 6 nella
sola San Remo; a Maiori, a Margherita di Savoia, a
Torvaianica sono già entrate in funzione, mentre altre sono
in progetto un po’ dovunque.
Sono esse un’alternativa agli impianti di depurazione o
un completamento di questi? Possono essere l’una e l’altra
cosa: ma se si vuole che le spiagge della Campania non siano
fuori legge dal punto di vista microbiologico ancora per
molti anni, esse rappresentano l’unica alternativa e la più
immediata: in seguito si potrà valutare un trattamento parziale
o totale dei liquami, se necessario.
Due costi. Precisato che quanto è maggiore il numero
degli abitanti serviti, tanto è minore il costo dell’impianto
procapite, un costo di 10-15 mila lire per abitante è oggi
accettato. Ciò significa 10-15 miliardi per la sola costruzione
di impianti per un milione di abitanti: ma significa quasi un
miliardo all’anno per spese di gestione. La costruzione di una
condotta, invece, viene a costare circa la metà, con variazioni
possibili dipendenti dalla profondità dei fondali marini (condotta
più lunga per fondali più bassi). Il costo di gestione
della condotta, invece, è praticamente nullo: ciò rappresenta
per i comuni un aspetto di enorme importanza, specie nel
Meridione, dove l’indebitamento delle pubbliche amministrazioni
porta alla mancata manutenzione e funzionamento
dei depuratori che la Cassa per il Mezzogiorno ha costruito.
I diversi risultati. Essi vanno così riassunti:
1) Un impianto ossidativo ben funzionante, teoricamente,
può dare un abbattimento batterico del 90%, anche se
in pratica troppo spesso dà una riduzione del 60-70% appena.
Se un impianto funziona benissimo, il 10% dei batteri
enterici che ne esce è ancora troppo elevato se pensiamo a
quella cifra di 18 cifre, prima citata, che indica il numero di
colifecali che si versa ogni giorno sulle coste della Campania
e che si riduce ad un solo zero. Ed è forse per questo che le
ditte costruttrici di impianti di depurazione non danno mai
garanzie di ordine microbiologico, ma si limitano ai solidi
sospesi, al BOD, alla stabilità relativa, ecc.
La legge impone limiti batteriologici precisi per la balneazione,
ancora più restrittivi per la miticoltura, perciò i
tecnici debbono realizzare un impianto di trattamento che
porti le acque costiere entro questi limiti. La condotta sottomarina,
invece, garantisce la costa dall’inquinamento
microbico perché i calcoli della sua lunghezza sono imperniati
principalmente su questo aspetto del problema. Per
Cuma è probabile si debbano raggiungere i 6 km, per il
Golfo di Napoli potrebbero bastarne anche 3 per raggiungere
un fondale di 40 metri, al fine di portare il materiale
sotto la termoclina (almeno estiva), che per effetto di differenze
di temperatura non permette la risalita in superficie
delle acque scaricate ed il loro ritorno verso costa se non
con molto ritardo: così, i microrganismi enterici moriranno
negli strati profondi a causa di tutti quei fattori fisici, chimici,
e biologici che portano all’autodepurazione delle
acque. Comunque sia, a Maiori, essendosi raggiunta la termoclina,
sopra il diffusore della condotta non abbiamo
riscontrato in agosto nemmeno un colifecali in 100 c.c. di
acqua più volte esaminata.
2) Il materiale organico e microbico delle acque di fogna
è un nutrimento per il mare, come è un concime per i campi,
perché si inserisce nel ciclo della catena alimentare trasformandosi
prima in alghe, poi in plancton ed infine in pesci.
Al largo ciò avviene celermente e senza sofferenze per la
vita marina anche per opera della forte diluizione immediatamente
prodotta dai diffusori.
3) L’accumulo nella catena alimentare di metalli o di
sostanze tossiche non degradabili non dovrebbe porsi come
problema in questo studio comparativo, perché né gli
impianti né le condotte riescono a distruggerli se degradabili
non sono. Comunque noi stiamo parlando di acque
domestiche o industriali analoghe, che non contengono
sostanze cumulabili (è questo il caso di Cuma per ammissione
degli stessi progettisti), mentre è noto che ogni scarico
industriale che non entri in questa categoria non può essere
immesso nella fognatura comunale se non dopo trattamento
adeguato a parte.
4) Il tempo richiesto per la posa in opera di una condotta
sottomarina è di 3-4 mesi ed essa entra in funzione immediatamente,
con il vantaggio che può farlo anche se non
tutte le fognature a monte sono allacciate. Inoltre può essere
dimensionata per una popolazione a venire praticamente
illimitata, purché se ne preveda la sezione con un modico
aumento di spesa.
Un impianto di depurazione richiede un tempo di
costruzione 3-4 volte maggiore; non ha l’elasticità di adattarsi
a funzionare con portate molto maggiori e molto
minori senza che il trattamento ne risenta; entra in regime
dopo un certo tempo dall’avviamento, sempre che si trovino
i tecnici capaci di farlo funzionare.
5) Il problema dei fanghi non si pone per le condotte sottomarine
perché non si formano; è invece cruciale per gli
impianti di depurazione. Essi dovranno essere scaricati con
camion in luoghi prescelti, o scaricati al largo con chiatte o
bruciati sul luogo con costosi sistemi di incenerimento che
comportano inquinamento atmosferico e degradazione paesaggistica.
Per tutte queste difficoltà, alla fine, si scaricano
sul luogo magari di notte o durante le piogge: ciò rappresenta
un assurdo perché, malgrado il costoso impianto che ciò
si proponeva di evitare, la costa riceverà materiale eutrofizzante
concentrato.
6) Le aree richieste per gli impianti di depurazione sono
enormi e spesso irreperibili in vicinanza dell’abitato (per
Cuma sono previsti 20 ettari in un luogo appartato). Ciò
comporta spesso canalizzazioni aggiuntive per portare il
tutto fuori dal centro abitato anche per questioni urbanistiche,
ambientali e igieniche. Reperire aree che non diano
fastidio agli abitanti è ben difficile lungo l’arco del Golfo.
La condotta sottomarina, invece, non richiede aree a terra,
e parte occultata.
Conclusione. C’è da chiedersi, allora, perché si fanno
questi impianti di depurazione se le condotte sottomarine
costano tanto di meno? La risposta l’ha data al recente convegno
di Alassio un competente del problema, l’ingegner R.
Olivotti dell’Istituto di Idraulica dell’Università di Trieste:
«Io sono per le condotte, ma sono ben lieto di progettare gli
impianti per evitare faticose lotte di convincimento, tanto
più che… le parcelle sono più alte».
In allegato per voi il numero monografico del Bollettino Assise di Napoli e del Mezzogiorno dedicato al tema con diversi contributi .Da leggere: