Dai maccheroni al ragù napoletano

Dal blog:La cucina coi baffi

Chi ha inventato i maccheroni?… Tranquilli, non dirò che sono stati inventati a Napoli…. Non li ha inventati nessuno!! Possono tuttavia essere considerati il prodotto finale di un lento e naturale processo evolutivo nell’utilizzo dei cereali, processo evolutivo che potrebbe essere avvenuto contemporaneamente in più luoghi e presso diverse civiltà seppure con differenti tipi di cerali. Possiamo quindi far risalire la storia della pasta a quando l’uomo imparò ad utilizzare i cereali comprendendo che sfarinandoli sarebbero diventati più digeribili. All’inizio furono le minestre o le farinate, dopo mille anni arrivò la polenta… ma occorsero ancora qualche migliaio di anni per vedere i primi impasti cotti su pietra rovente per realizzare focacce o pane azzimo. Quando finalmente si riuscì a far sì che l’impasto di acqua e farina , buttato nell’acqua bollente rimanesse compatto senza disfarsi, si ottennero le prime paste. All’inizio essa fu solo sbriciolata o strappata con le mani, poi si cercò di dare una forma a quei tocchetti di pasta con la pressione delle dita, come si fa ancora oggi per gnocchi ed orecchiette.
Già nel I° secolo a. C. Cicerone ed Orazio erano ghiotti di lagana, dal termine greco laganon che indicava una schiacciata di farina tagliata a strisce, cui solitamente si fanno risalire le attuali lasagne. Certamente significativo è che nel dialetto napoletano ed in altri dialetti meridionali laganaturo è una parola ancora in uso per indicare il matterello con cui viene stesa la pasta e laganelle sono chiamate le fettuccine che si abbinano ai legumi.
La presenza costante di vermicelli e maccheroni tra le ricette degli antichi testi di cucina dimostra come sin dal Medioevo la pasta era in uso nella cucina aristocratica, per essere servita alle mense dei nobili e dei ricchi di tutta Italia, mentre rappresentava un miraggio per il popolo minuto. A Napoli all’inizio del Cinquecento i maccheroni erano già così diffusi che nel 1509 vi fu bisogno di un editto vicereale che vietava, in caso di aumento del prezzo della farina per guerra, carestia o cattivo raccolto, di preparare taralli, sosamelli, zeppole, maccarune, trii e vermicelli eccetto che per necessità di malati. Nello stesso secolo furono emanati altri 22 bandi per regolamentare produzione e vendita di maccheroni e vermicelli. Nonostante la crescita della percentuale di napoletani che preferiva mangiare i maccheroni essi erano ancora conosciuti come mangiafoglie (leggete qui). Ma nei primi decenni del Seicento, le cose cambiarono: vi fu un evento che, senza tema di esagerare, può essere definito unico nella storia dell’umanità. Gli abitanti di Napoli, all’epoca tra le città più popolose d’Europa, per motivi storici, sociali ed economici non ancora del tutto chiariti, misero in atto una vera e propria rivoluzione alimentare trasformando completamente le loro abitudini gastronomiche e da mangiafoglie divennero mangiamaccheroni. Se nel secolo precedente scrittori e poeti di Napoli non avevavno perso occasione per decantare le dolcezze della foglia, numerosissime sono nel Seicento le testimonianze della nuova passione per la pasta.La maschera di Pulcinella, creata dal Fiorillo nel 1632, sin dalla sua nascita fu indissolubilmente associata ai maccheroni. Nonostante nel Seicento i maccheroni fossero ormai molto diffusi i famossi lazzari e la plebe miserabile dovevano contentarsi di mangiarli solo in sogno: i maccheroni erano confezionati a mano ed il loro costo era troppo alto per le scarse risorse dei napoletani (essi venivano consumati, nella migliore delle ipotesi, nei giorni di festa, una ghiottoneria di cui abbuffarsi nelle grandi occasioni). Finalmente nel Settecento, grazie alla comparsa delle prime macchine per fabbricare i maccheroni, il prezzo divenne più accessibile, serviti da secoli alle mense aristocratiche, arrivarono nei vicoli di Napoli per essere preparati e venduti a pochi soldi. Agli angoli delle strade comparvero le grosse caldaie dei maccheronari affiancate da un piatto di terraglia contenente piramidi di formaggio grattuggiato solcato da righe nere di pepe, unico condimento fino all’affermazione del pomodoro. Venne aggiunto allora un secondo tegame con la salsa di pomodoro ed il cliente, dopo l’unità d’Italia, poteva scegliere tra o roje allatante e o tre Galibardi, cioè pagava due soldi per una porzione di maccheroni bianchi e tre soldi per averli rossi come la camicia dell’eroe dei due mondi. Ma quale abisso fra la pasta plebea e quella aristocratica! Il popolo preferiva i maccheroni vierdi vierdi cioè duri al pari dei frutti ancora acerbi, in antitesi con quelli stracotti preparati per le mense dei nobili. Nel Settecento ormai i maccheroni erano a Napoli il piatto nazionale e tutti, dai lazzari alla borghesia,fino alla nobiltà mangiavno quotidinamente il loro piatto di pasta, compreso il re Ferdinando IV (poi I) che, insofferente all’etichetta di corte, amava affrontare i suoi amati maccheroni con le mani a branca, alla maniera dei suoi più umili sudditi, provocando l’indignazione della sofisticata regina Maria Carolina. Il caratteristico gesto divenne espressione del più tipico folklore napoletano, sicchè all’inizio del Novecento, quando era ormai desueto da tempo, vi erano ancora coloro che per pochi soldi si esibivano a beneficio dei turisti stranieri che si divertivano allo spettacolo dei lazzari napoletani che mangiavano i maccheroni con le mani. Pur se considerati cibo prettamente napoletano, i maccheroni non ebbero difficoltà a conquistare le tavole di tutta Italia e furono inclusi in ricettari di tutte le altre regioni, sia in preparazioni classiche che locali. L’Ottocento è il secolo in cui si compie il miracolo, i maccheroni si colorano di rosso, formando con il pomodoro un binomio inscindibile che conquisterà il mondo. Questa nuova realtà fu recepita dal nobile gastronomo napoletano Ippolito Cavalcanti Duca di Buonvicino che, (nel suo libro “Cucina teorico-pratica” del 1837) dette per la prima volta spazio ai piatti della cucina popolare semplici e genuini, tra cui i deliziosi maccheroni plebei, che non erano mai entrati nei ricettari della grande cucina aristocratica. Finalmente Cavalcanti affermò e divulgò la regola che la pasta doveva essere al dente secondo la consuetudine del popolo napoletano. Il pomodoro, inizialmente fu adoperato sulle tavole degli italiani come elemento decorativo e fu considerato a lungo velenoso. Antesignane furono la Spagna ed il Regno di Napoli dove il pomodoro era entrato nell’uso quotidiano già dal Seicento. Tant’è che il merito di avere scritto la prima ricetta di pomodoro va ad Antonio Latini, grande cuoco attivo a Napoli nella seconda metà del Seicento. La bellezza di quella bacca rossa, allegra e polposa parve la miglior garanzia contro ogni superstizione, e proprio a Napoli ne venne fatto l’uso più appropriato e congeniale, mettendolo sulla pasta. All’inizio i pomodori erano cotti al naturale, semplicemente con un po’ di sale senza grassi nè aromi… in un secondo momento però, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento comparve Sua maestà IL RAGU’.

L’etimologia della parola ragù è francese: “ragout” proveniente da “ragouter” (rinforzare il gusto) che a sua volta deriva dal latino gustus.

Una salsa che è stata immortalata in alcuni pezzi letterari.

GIUSEPPE MAROTTA ne “L’oro di Napoli”:

“….. Fin dalle primissime ore del mattino un tenero vapore si congeda dai tegami di terra cotta…. Il cielo di Napoli presiede alle sorti del ragù, perchè il ragù non si cuoce ma si consegue, non è una salsa ma la storia, il romanzo e il poema di una salsa…. In nessuna fase della cottura deve essere abbandonato a se stesso; come una musica interrotta e ripresa non è più una musica, così un ragù negletto cessa di essere ragù e anzi perde ogni possibiltà di diventarlo.”

SIGMUND FREUD nel suo saggio “Edipo in cucina”
Non tutti sanno, che anche Freud si è occupato del ragù napoletano scrivendo un breve saggio, ad inizio secolo, sulla rappresentazione simbolica dei riti legati alla sua preparazione.
Nella ricetta della Genovese vi ho parlato degli “zitoni” (grossi “ziti”) che per essere mangiati dovevavno (e devono) essere spezzati a mano. Questo compito era generalmente affidato ai piccoli di casa e perciò anch’io, ai tempi, ne ho avuto incarico. Ricordo che le dita dopo un po’ mi facevano male, ma stoicamente e golosamente continuavo al pensiero di ciò che mi attendeva al termine di questa operazione: il rimasuglio della pasta spezzata quasi si fondeva al sugo e quell’ultimo boccone era il più buono ed il più ricco di sugo. Lo zitone, come tutta la pasta per noi napoletani, deve essere al dente: cotta ma un pò dura. Ciò per, qualche studioso, diventa un’ambiguità tra maschio e femmina: Freud, profondamente colpito, durante un suo viaggio a Napoli, scrisse un piccolo saggio all’inizio del secolo denominato “Edipo in cucina” in cui paragonava il mangiare maccheroni col ragù all’unione incestuosa con la madre, ravvisando una sorta di castrazione maschile sempre ad opera della madre stessa.
Su yuotube ho trovato questo simpaticissimo video sulle tesi freudiane su ragù e inconscio, buona visione.

Il grande EDUARDO nella sua commedia “Sabato, domenica e lunedì”, nel dialogo fra donna Rosa Piscopo e la sua donna di servizio Virginia, ha lasciato traccia di una vera e propria ricetta del ragù. Dal I atto della commedia:

“Presso il tavolo centrale c’è donna Rosa che sta preparando il rituale ragù. Sta legando il girello, “il pezzo di annecchia” (cinque chilogrammi) che dovrà allietare la mensa domenicale dell’indomani. Virginia la cameriera gomito a gomito con la padrona affetta cipolle; ne ha già fatto un bel mucchio: ma ne deve affettare ancora.
La poverina ogni tanto si asciuga le lacrime o con il dorso della mano o con l’avambraccio: ma continua stoicamente il suo lavoro.”

Rosa: Hai fatto?
Virginia: (piagnucolando) Devo affettare queste altre due.
Rosa: E taglia, taglia… fai presto.
Virginia: Signò, ma io credo che tutta questa cipolla abbasta.
Rosa: Adesso mi vuoi insegnare come si fa il ragù. Più ce ne metti più aromatico e sostanzioso viene il sugo. Tutto il segreto sta nel farlo soffriggere a fuoco lento. Quando soffrigge lentamente, la cipolla si consuma fino a creare intorno al pezzo di carne una specie di crosta nera; via via che ci si versa sopra il quantitativo necessario di vino bianco, la crosta si scioglie e si ottiene così quella sostanza dorata e caramellosa che si amalgama con la conserva di pomodoro e si ottiene quella salsa densa e compatta che diventa di in colore palissandro scuro quando il vero ragù è riuscito alla perfezione.
Virginia: ma ci vuole troppo tempo. A casa mia facciamo soffriggere un poco di cipolla, poi ci mettiamo dentro il pomodoro e carne e cuocio tutto assieme.
Rosa: E viene carne bollita col pomodoro e la cipolla. La buonanima di mia madre diceva che per fare il ragù ci voleva la Pazienza di Giobbe. Il sabato sera si metteva in cucina con la cucchiaia in mano, e non si muoveva da vicino alla casseruola nemmeno se l’uccidevano. Lei usava “il tiano” di terracotta o la casseruola di rame. L’alluminio non esisteva proprio. Quando il sugo si era ristretto come diceva lei, toglieva dalla casseruola il pezzo di carne di “annecchia” e lo metteva in una sperlunga; come si mette un neonato nella “connola”, poi situava la cucchiaia di legno sulla casseruola, in modo che il coperchio rimaneva un poco sollevato, e allora se ne andava a letto, quando il sugo aveva peppiato per quattro cinque ore. Ma il ragù della signora Piscopo andava per nominata.
Virginia: (compiacente) Certo, quando uno ci tiene passione.
……………………………

Nella lettura di queste poche righe del Marotta e di Eduardo si legge tutta la tradizione ed i segreti del ragù. Vi si leggono le parole chiave di tutta ricetta: il ragù richiede attenzione, ore ed ore di amore e dedizione. Deve cuocere lentamente e non essere mai abbandonato…per questa ragione si comincia a cuocere il sabato per tre ore e si finisce di cuocere la domenica per altre due ore. Il ragù dovrebbe essere cotto nel rame, ma va bene anche l’alluminio (MAI l’acciaio, anche perchè il ragù dopo cotto si mette al fresco fuori al balcone – NON nel frigo – fino al giorno dopo – in questo modo i grassi salgono a galla e possono essere eliminati – se restasse nell’acciaio il pomodoro potrebbe inacidire). Tale grasso non va buttato, ma conviene utilizzarlo successivamente come grasso di base per altre preparazioni che acquisteranno un gusto particolare. Ottima scelta è cuocere nella pentola di coccio. Per la stessa ragione poc’anzi descritta bisogna usare una “cucchiarella” (cucchiaio di legno). Peppiare: Il toscano traduce questa parola con sobbollire, ma è impreciso: un ragù napoletano che sobollisse e non peppiasse non sarebbe vero ragù: la salsa deve bollire a fiamma piuttosto bassa poggiando la “cucchiarella” sul lato della pentola col coperchio sopra, proprio come descrive donna Rosa nella commedia,
in modo tale che, il filo d’aria entrante dalla fessura lasciata aperta, impedisca alla salsa di attingere forza dal fuoco e di bollire (la qual cosa rovinerebbe tutto). Il ragù peppiando (pipeggiando, facendo il rumore della pipa) avrà un bollore prolungato ma calmo…… riflessivo. Soltanto quando vedrete che i grassi affiorano in superfice, potrete essere certi di avere, come dice Marotta, “conseguito il ragù”.

Anche per il Ragù, come per la Genovese, non esiste una ricetta unica. A differenza della Genovese il Ragù può prevedere differenti pezzi di carne. Se si deve realizzare un ragù per la lasagna di carnevale bisognerebbe utilizzare solamente carne di maiale, ma dato che ai giorni nostri il maiale non è più quello di una volta è preferibile mischiarla con quella di bue o di vacca (che sia un bovino decisamente adulto), preferendo un muscolo resistente alla cottura, saporoso…… anche un po’ grasso e venato. Molti adoperano un solo tipo di carne, ma si può usare anche un misto alla “chianchiere” (il macellaio di una volta). Per la carne di maiale usare la “tracchia” o la “tracchiulella” (in Italiano si chiamano spuntature), una oppure due cervellatine (sono come delle salsicce ma sottili – facoltative-) e la “gallinella” (muscolo del polpaccio – sopracoscio) – il nome è dovuto al fatto che il pezzo di carne in questione ha quasi la forma di una piccola gallina con le ali ripiegate sul corpo, mentre “la tracchiolella” (diminutivo di “tracchia”) deriva dal greco tràchelos =collo, cervice in quanto le migliori sono quelle umide ricavate dalla sfasciatura delle vertebre del collo della bestia (se è di costato è detta tracchia asciutta in quanto povera di grasso e quindi meno morbida e succosa) . Per la carne rossa sono ottimi anche i pezzi meno pregiati come il “gammunciello” di annecchia (animale non più vitello, ma ancora manzo); vi sembrerà strano ma molto meglio sarebbe utilizzare una carne di terzo taglio, infatti se considerate che la carne dovrà rilasciare il suo sapore al sugo, un po’ come avviene per il brodo….. ci pensate che schifezza di brodo si otterrebbe senza una carne succosa, nervosa e grassa?? Per maggiori informazioni nella scelta della carne cliccate qui. L’ottimo (come diciamo a Napoli ” ‘a morta soja”) sarebbe fare il Ragù con la braciola…. Ma di questo vi parlerò un’altra volta. Nel ragù ci vuole poi molta cipolla, più ne metterete, più il sugo sarà denso e aromatico, per la scelta della cipolla vi rimando qui).

Ingredienti
1,5 Kg di carne (alla chianchiere, in pezzo unico oppure mista, secondo ciò che avete scelto leggendo le indicazioni). Se avete scelto il pezzo intero (pezzo intero di lombo di vitellone, che a Napoli si chiama annecchia, cioè vitella di un anno) dovrete lardellarlo con 100 gr di ladro di pancia (oppure prosciutto crudo gasso), con 50 gr di pancetta tesa affumicata, prezzemolo e pepe.
Inoltre:
3 tracchiolelle
100 gr di cotica di maiale (fiammeggiatela e lavatela, poi fatene un involtino con un aglio e del prezzemolo – legate con spago da cucina -)
600 gr di cipolle dorate vecchie (leggete qui)
100 di sugna (strutto) – se non ne avete una di buona qualità sostituitela con un ottimo olio evo
50 gr di lardo di pancia
1/4 (e più) di vino rosso di Gragnano (altrimenti usatene uno asciutto e frizzante)
50 gr di pancetta tesa affumicata
400 ml di concentrato di pomodoro
(in realtà la ricetta originale del ragù napoletano non prevede l’uso di pelate, passate o concentrato di pomodoro, ma soltanto la “conserva” di pomodoro, che contiene meno acqua, oggi sostituita dal concentrato)
1,5 litri di passata di pomodoro (1 Kg di San Marzano d’estate)
– se poi vogliamo essere pignoli ci vorrebbero delle pelate passate in quanto hanno una consistenza più liquida che consente, quindi, di non far addensare troppo presto il sugo. Fate così: se utilizzate poco concentrato aggiungete la passata, se invece volete usare parecchio concentrato allora usate le pelate passate –

1 ciuffetto di basilico

Procedimento
Mettete nella pentola di coccio tutti i grassi (il lardo e la pancetta tritati) e fatevi rosolare la carne a fuoco bello vivo, ma non troppo alto, sino a raggiungere, come dice Eduardo De Filippo, un bel color biscotto. Rosolare per bene la carne facendole fare la crosticina. Sfumate con un pochino di vino rosso, vedrete che la crosticina tenderà a sciogliersi, aggiungete la cipolla tritata non troppo finemente (la cipolla dovrà cuocere a fuoco moderato fino a consumare tutta la sua acqua e raggiungere un colore ambrato diventando cremosa). A questo punto sfumare con altro vino rosso il tutto. Dovrete quindi rimanere ai fornelli a sorvegliare la vostra “creatura”, pronti a rimestare con la cucchiarella di legno, e bagnare con il vino, appena il sugo si sarà asciugato. Inoltre, il fuoco andrà alzato in alcune fasi ed abbassato in altre (in generale vi consiglio di aumentare il fuoco ogni qual volta aggiungete un ingrediente e di abbassarlo quando raggiunge la temperatura). A questo punto, eliminare temporaneamente la carne e la cotica, ed aggiungere poco per volta (dovrete rimestarlo ed amalgamarlo pian pianino) il concentrato di pomodoro stemperato in poca acqua. E’ proprio alla fine di questa fase che il sugo assumerà la colorazione palissandro di cui ci parla Edoardo. Inserite di nuovo la carne e la cotica ed aggiungete la passata di pomodoro oppure le scatole di pelati opportunamente passate al passaverdura (NON frullate): la passata, abbinata al concentrato potrebbe tendere ad addensare un po’ troppo presto….. Comunque, se ciò accadesse, niente paura: aggiungete più acqua!! Se invece è estate , usate i pomodori San Marzano, anch’essi passati al passaverdure). Alzate la fiamma per portare il tutto a bollore e poi abbassatela di nuovo. La cottura della carne potrebbe richiedere più acqua di quella contenuta nei pomodori perciò, come vi dicevo poc’anzi, aggiungete a “sentimento” quella che vi sembra che serva. Personalmente vi suggerisco di aggiungerne in abbondanza… se dovesse poi risultare troppa basterà far cuocere di più affinchè evapori. Siamo ora giunti al momento di far “peppiare” il sugo per tutto il tempo necessario avendo cura di rimestare di tanto in tanto (questa fase deve durare non meno di 4 ore). Il sale ed un pizzico di pepe dovete aggiungerli quasi a fine cottura. Il ragù sarà pronto quando il pomodoro non avrà più sentore di crudo; la salsa si dovrà presentare di colore molto scuro, di aspetto untuoso, lucido e denso. Prima di spegnere aggiungete una bella manciata di basilico (spezzettato con le mani, mi raccomando, altrimenti perderebbe il suo profumo, colore e sapore).A fine cottura, togliete la carne e conservate il sugo al fresco (d’estate in frigo ma d’inverno fuori al balcone) per il giorno dopo, quando con un cucchiaio potrete raccogliere tutto il grasso rappreso in superficie e riscaldare il sugo a fuoco lento
I paccheri e gli ziti, di cui vi ho parlato nella ricetta della Genovese, sono nati proprio per essere conditi con questa salsa, mentre i mezzani e i bucatini nacquero per essere accompagnati con la Genovese.

Ma come va servito il ragù? Conditeci la pasta doppia (meglio quella trafilata al piombo che essendo ruvida trattiene di più il sugo) o gli gnocchi (magari stufati al forno nel “pignatiello” con la mozzarella) in questo modo: versate la pasta al dente in una zuppiera da servizio, cospargete con un bel mestolo di ragù e rigirate per fare insaporire il tutto. Aggiungete un’altro mestolo di ragù in cima ed una bella grattata di pecorino o caciocavallo (il grana ed il parmigiano sono arrivati sulle tavole dei napoletani in un secondo momento). Portate a tavola una salsiera con altro ragù.
Altri versi di Eduardo, tratti dalla stessa commedia di cui sopra:

‘O ‘rraù (Il ragù)

‘O rraù ca piace a me (Il ragù che piace a me)

m’ ‘o ffaceva sulo mammà. (me lo faceva solo mammà.)

A che m’aggio spusato a te, (Da quando mi sono sposato te,)

ne parlammo pè ne parlà. (ne parliamo per parlarne.)

Io nun songo difficultoso; (Io non sono difficile;)

ma luvàmmel’ ‘a miezo st’uso (ma togliamo di mezzo questo uso)

Sì, va buono: cumme vuò tu. (Sì, va bene: come vuoi tu.)

Mo ce avéssem’ appiccecà? (Ma adesso vorresti litigare?)

Tu che dice? Chest’è rraù? (Tu cosa dici? Che questo è ragù?)

E io m’ ‘o mmagno pè m’ ‘o mangià… (E io lo mangio per mangiare)

M’ ‘a faja dicere na parola?… (Mifai dire una parola?…)

Chesta è carne c’ ‘a pummarola. (Questa è carne con il pomodoro.)
P.S.: non so se accade in tutte le famiglie di Italia, ma qui a Napoli è così! Ciò che ci cucinava la nostra mamma non sarà mai più ripetibile da chiunque tenti di farlo. Cruccio delle nuore e vanto dei figli!!

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